mercoledì 25 ottobre 2017

Vivian Maier: il documentario necessario

Cosa rende le fotografie di Vivian Maier così speciali? Forse il fatto che rappresentano un mondo passato, una New York anni ’60 che abbiamo imparato a conoscere solo grazie ai film. Siamo stati talmente abituati a vedere le opere di Scorsese, Woody Allen e i grandi cult della cinematografia mondiale, che abbiamo della Grande Mela un’immagine tutta nostra, affascinante e suggestiva. Questa magia non si limita solo a New York: grazie al cinema abbiamo imparato a conoscere e amare Los Angeles, Chicago, Boston. Abbiamo simpatizzato con la malavita, i giustizieri della notte e i pubblicitari di Madison Avenue. Ci siamo innamorati di bellissime donne bionde a cui abbiamo offerto un drink in un locale fumante e abbiamo vagato per le strade fredde di New York, mani in tasca, alla ricerca di un cinema dove trovar rifugio.

Finding Vivian Maier


Ma, se queste  nostre immagini cinematografiche non sono altro che riproduzioni della realtà, influenzate dalle necessità narrative dei film, le foto della Maier raccontano una New York quotidiana, reale, genuina: senza filtri. Esse rappresentano donne, uomini e bambini della metropoli catturati dalla sua rolleiflex e resi eterni. È forse questo uno dei tanti motivi per cui le sue foto sono ormai al centro dell’attenzione della fotografia mondiale. Vivian Maier racconta una città perduta, con i suoi costumi e la sua quotidianità. Muratori, storpi, divi, giochi di specchi riflessi e ombre sulle strade vive della città: da queste opere traspare una personalità misteriosa, quella di una bambinaia paranoica e compulsiva, che per tutta la sua vita non ha fatto altro che collezionare ritagli di giornale e scattare fotografie. Vivian era fondamentalmente una donna sola, oscura, e con un particolare odio verso gli uomini: sentiva costantemente in pericolo la sua posizione di donna nella società moderna. Chi era davvero Vivian Maier? Per tutta la vita è stata una donna anonima, morta in povertà assoluta nel 2009.

Vivian Maier: la necessità di un documentario


Eppure, se solo avesse voluto, sarebbe potuta diventare una delle più grandi fotografe del panorama mondiale già negli ’60. Ma così non è stato. Una coincidenza, o forse, il destino, hanno voluto che un giovane ragazzo, alla ricerca di foto per un libro, si sia imbattuto in un misterioso scatolone, contenente migliaia di rullini ancora non sviluppati. Preso dalla curiosità, John Maloof ha cominciato a stampare le foto, scoprendo in esse una grande artista e fotografa. Nasce quindi il mito di Vivian Maier, così, per caso. Di questa storia se ne è fatto anche un film: Finding Vivian Maier, tra l’altro anche candidato agli Oscar come Miglior Documentario nel 2015. La pellicola racconta la storia di un giovane ricercatore, che quasi con la stessa compulsione dell’artista, è riuscito a raccogliere tutte le informazioni possibili sul conto della donna, contattando e intervistando chiunque l’avesse conosciuta. Ne è venuto fuori un’identikit sconvolgente.

Chi era Vivian Maier?



Il mistero si fa sempre più fitto: chi era Vivian Maier? Era di New York, o davvero arrivava da qualche sperduto villaggio francese? Per molti era una dolce bambinaia appassionata di fotografia e un po' matta, per altri una donna oscura, violenta, che da tempo ormai aveva oltrepassato il limite della follia. In Vivian si nascondeva un passato tragico, un qualcosa di non superato, che la donna esorcizzava per mezzo delle sue manie. Se avesse voluto, avrebbe potuto presentare i suoi lavori a qualcuno d’importante a New York, invece sembra che a lei interessasse soltanto l’attimo dello scatto, quel momento istantaneo in cui riusciva a cogliere l’essenza del suo soggetto. Le sue foto sono sempre ravvicinate, a un palmo dai suoi modelli: vecchi clochard, bambini in preda al pianto, bellissime donne. Vivian era “solo una bambinaia”, è vero, ma conosceva molto bene le potenzialità della sua macchina fotografica: comprendeva il valore della composizione di un’inquadratura, sapeva sfruttare la luce a suo favore e, soprattutto, sapeva cogliere l’attimo. Immaginatevela camminare per le strade di New York, con appresso i suoi bambini, suoi grandi compagni di vita. Ogni istante, movimento, sguardo che poteva sembrarle interessante, veniva intrappolato da uno scatto. E così, giorno dopo giorno, Vivian ha continuato a scattare, in maniera compulsiva, ai limiti della malattia. Registrava tutto quello che le accadeva attorno. Era affascinata da tutto ciò che vedeva: un clown triste, dei bambini che giocano per strada, delle donne che leggono il giornale sedute su una scala, osservate in lontananza da un marinaio. Vivian si fermava, osservava, percepiva la poesia del momento, metteva a fuoco e scattava. Così, per tutta la vita. Probabilmente aveva una grande paura di essere dimenticata. Forse, sapeva che un giorno qualcuno avrebbe visto e apprezzato le sue fotografie. Quello che sappiamo è che Vivian comprendeva la validità delle sue piccole opere fotografiche, che niente avevano da invidiare a quelle dei grandi fotografi dell’epoca. Eppure l’unica richiesta di stampare le proprie opere era stata fatta a un piccolo stampatore francese, abitante del suo piccolo villaggio d’origine in Francia. Perché proprio lui? Perché tra i tanti stampatori di New York ne aveva scelto uno che abitava lontanissimo e che tra l’altro non l’ha neanche presa sul serio? 

Questo è un mistero che difficilmente riusciremo a risolvere. Quello che conta, ora, è che il suo vasto e immenso materiale sia finalmente fruibile al grande pubblico, che di anno in anno, ne è sempre più entusiasta. Il mondo della fotografia ringrazia il giovane John Maloof che ha avuto il coraggio, la passione e la forza di farsi carico di un’impegno così grande: trasformare una vecchia bambinaia in un’immortale grande fotografa.



Francesco Lodato
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Fonte foto: facebook.com/photographervivianmaier/


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