mercoledì 29 novembre 2017

Richard Avedon: Darkness and Light. Quando la moda diventa una delle forme d'arte più nobili

Curiosando su YouTube ci siamo imbattuti in un documentario che pensavamo ormai fosse introvabile: invece era lì, nascosto tra i tantissimi video caricati sulla piattaforma. Stiamo parlando di Richard Avedon: Darkness and Light, un documentario realizzato nel 1996 da Helen Whitney, quando il fotografo era ancora in vita.

Richard Avedon: uno stile inconfondibile


Il messaggio di Helen Whitney è abbastanza chiaro fin dalle prime immagini:  per l’autrice, Richard Avedon è senza dubbio il fotografo di moda più influente del secolo appena concluso. Il documentario, infatti, riesce a tracciare il ritratto suggestivo e affascinante di un artista che ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo della moda e della pubblicità, elevando entrambi i campi al regno dell’arte. Richard Avedon era un grande artista, cosciente del suo talento. Nei suoi set fotografici vigeva la dittatura più assoluta: era lui l’unico comandante e i soggetti non dovevano fare altro che prestarsi alle sue indicazioni. Come afferma lo stesso fotografo, ogni suo scatto, anche quello meno importante, porta con sé un frammento della sua anima ed è, perciò, sacro. In sintesi, più che rappresentare il mondo reale, il fine di Avedon è sempre stato quello  di indagare e scandagliare il proprio mondo onirico, rappresentandone gli abitanti attraverso la fotografia.

La fisicità: elemento essenziale della fotografia di  Richard Avedon


Affascinato dai corpi e dai volti degli essere umani, è risaputo che Richard Avedon abbia sempre preferito fotografare le persone, escludendo tutto il resto: era la fisicità ciò che lo impressionava di più e i suoi slanci ciò che voleva a tutti i costi immortalare. Tra i suoi primi soggetti spiccano i nomi di grandi personaggi del grande schermo, come Judy Garland e Buster Keaton. Successivamente, però, Avedon decide di dedicarsi alle persone comuni, quelle incontrate per strada, per poi passare definitivamente al mondo della moda. Anche qui, Avedon riesce a liberarsi dagli schemi, portando in strada e nei locali le modelle, abituate ad essere coccolate in uno studio ben riscaldato. Helen Whitney si diverte a infarcire il documentario di aneddoti molto interessanti: come quello riguardante le fasi preparatrici agli scatti di Natassya Kinsky, nuda e con addosso un serpente che le striscia su tutto il corpo o come quando una bellissima Marilyn Monroe si lasciò andare nel suo studio danzando liberamente. Anche Charlie Chaplin  (proprio qualche giorno prima di scappare dagli Stati Uniti) si interessò al lavoro di  Richard Avedon (forse perché invidioso di Buster Keaton?): un giorno gli telefonò e gli fece visita nello studio, per vedere con i suoi occhi il luogo dove questo giovane fotogafo di talento lavorasse.

Richard Avedon: Darkness and Light parla di questo e di molto altro ancora. Non vi resta che andare su YouTube e godervi un pezzo di storia del mondo della fotografia moderna.


Francesco Lodato




























Fonte foto: facebook.com/theredlist.fr
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mercoledì 22 novembre 2017

Helmut Newton: Frames from the Edge. Il documentario che tutti gli appassionati di moda dovrebbero vedere

Famose in tutto il mondo per il loro essere fuori dagli schemi, le opere di Helmut Newton hanno avuto un impatto così forte nell’immaginario collettivo da far diventare i suoi soggetti, di solito biondine di Playboy, parte integrante della fantasia erotica di ogni uomo e donna del ventesimo secolo. Nel 1989, una troupe televisiva lo ha seguito in giro per il mondo, nelle città in cui ha vissuto e lavorato. Ne è nato così un interessante e imperdibile documentario, Helmut Newton: Frames from the Edge.

Chi è Helmut Newton?



Quella di Helmut Newton è davvero una storia avventurosa: nato  nel 1920 a Berlino, il piccolo Helmut cresce in una famiglia ebrea benestante. Potete immaginare quale sarebbe stato il suo destino se, poco più che maggiorenne, non avesse deciso di scappare imbarcandosi sul Conte Rosso, il piroscafo che lo porterà dritto fino a Singapore. Già a Berlino, Helmut si era distinto come discreto fotografo, ma è a Singapore, disperso in una società completamente diversa dalla sua, che il ragazzo conclude la sua gavetta. Mentre in Europa viene portato a compimento uno dei genocidi più tragici della storia, Helmut diventa un professionista lavorando come fotografo free lance per lo Straits Time. I colonialisti britannici, però, non lo amano particolarmente: così decidono di internarlo ed esiliarlo in Australia. Comincia così per Helmut un viaggio lungo una vita che lo ha portato in giro per il mondo. Parigi, Montecarlo, Los Angeles: sono queste le città in cui il fotografo lavora e costruisce la sua carriera di successo.

Helmut Newton: le fotografie e le città di una vita



In principio, quando è ancora in Australia, Newton comincia  a lavorare per la famosa rivista Playboy. Dagli anni ’50 in poi, però, il giovane fotografo si trasferisce con la moglie a Parigi: è in questa affascinante città che Helmut si specializza in fotografia di moda:  riviste come Vogue cominciano a prendere piede nell’immaginario collettivo e le donne sono più alla moda che mai. È in questo contesto che si inserisce Helmut, con le sue fotografie erotiche patinate (vizio cominciato con Playboy e mai abbandonato) che a volte sfiorano il sadomasochismo e il fetiscimo. Insomma, un vero talento fuori dagli schemi. Dagli anni ’80 in poi il suo stile prenderà il nome di Erotico-Urbano. Per tutta la sua vita Helmut è stato uno dei fotografi più amati dalle riviste e dalle case d’alta moda, fino all’anno della sua morte, nel 2004, quando muore schiantandosi contro facciata dello Chateau Marmont, famoso hotel in cui aveva per anni alloggiato.

Helmut Newton: Frames for the Edges


Di lui, però, ci è rimasto un bellissimo documentario, realizzato nel 1989: il regista di Helmut Newton: Frames for the Edge segue l’artista in giro per le più belle città d’Europa e d’America, luoghi in cui Helmut ha vissuto e lavorato, intervistando le sue modelle e la moglie australiana, sposata nel lontano 1948. Adrian Maben, traccia così un esaustivo identikit dell’artista che, se non  fosse morto in un incidente stradale, sarebbe ancora impegnato  a scattare foto, il lavoro della vita  grazie al quale si è conquistato la  libertà.

Helmut Newton è un documentario quasi introvabile, da vedere assolutamente se si è appassionati di moda e, in particolare, se si ama l’arte fuori dagli schemi.


Francesco Lodato

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Fonte foto copertina: facebook.com/ulderica.masoni
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lunedì 20 novembre 2017

World Press Photo 2017: un'edizione Torinese da non perdere

Sta per giungere al termine il World Press Photo, il concorso internazionale di fotogiornalismo mondiale che quest’anno è stato ospitato nelle stanze del Mastio della Cittadella di Torino. Aperto al pubblico dal 3 novembre, mancano ancora pochi giorni prima che l’evento termini definitivamente: il 26 novembre il World Press Photo chiuderà i battenti per prepararsi all’organizzazione della prossima edizione. I Torinesi hanno quindi solo pochi giorni per ammirare le foto in concorso di questo 2017.


Il World Press Photo 2017 di Torino


Il World Press Photo nasce ad Amsterdam nel 1955 con l’unico obiettivo di promuovere e tutelare la libertà di espressione, in questo caso veicolata dal fotogiornalismo. Una disciplina, questa, che si presta molto bene allo scopo: per mezzo delle immagini, fotoreporter di tutto il mondo testimoniano da anni i momenti più importanti della nostra storia contemporanea. Ogni anno in giro per il mondo, questa volta è toccato alla città di Torino l’onore di ospitare un concorso di tale spessore. Sono 150 le opere fotografiche che i torinesi  possono ammirare tra le stanze del Mastio della Cittadella di Torino, nei pressi di Porta Susa.

Gli artisti in gara


Anche quest’anno gli “artisti” fotoreporter in gara sono stati davvero tantissimi: tutti provenienti dalle maggiori testate giornalistiche mondiali come National Geographic, Le Monde, New York Times e molti altri. Insomma, dei veri e propri professionisti che ogni giorno vagano per il mondo armati di macchina fotografica, con l’unico obiettivo di rendere cosciente l’occidente di tutto quello che, di brutto e di bello, accade nel mondo. La foto sicuramente più suggestiva di quest’anno, che tra l’altro ha vinto il premio principale di questa edizione, è lo scatto del foto reporter Burham Ozbilici, riuscito a cogliere l’attimo, immortalando il poliziotto che ha assassinato l’ambasciatore russo Andrey Karlow, proprio qualche istante dopo l’omicidio. Uno scatto dal grande impatto emotivo che gli ha permesso di conquistare il World Press Photo 2017.

Oltre a questa, però, sono tantissime le altre foto da ammirare. Il World Press Photo 2017 è un evento torinese assolutamente da non perdere.


Francesco Lodato
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Fonte foto: facebook.com/WorldPressPhoto/

venerdì 17 novembre 2017

Photo Vogue Festival: a Milano moda e fotografia si incontrano

Il 16 novembre, è stata inaugurata a Milano la seconda edizione Photo Vogue Festival. Il programma di quest'anno prevede due spazi principali: Palazzo Reale e BASE Milano, spazio industriale riconvertito in centro culturale. Il calendario sarà ricco di eventi e incontri con esperti del settore.


Photo Vogue Festival: la fotografia di moda e cambiamenti socio-culturali



Vogue, famoso giornale di moda ha deciso di inaugurare nel 2016 il Photo Vogue Festival, in quanto ritiene che la moda sia la nostra interfaccia con il mondo, con la quale noi costruiamo e comunichiamo la nostra identità. E quale mezzo, se non la fotografia, può testimoniare al meglio cambiamenti socio-culturali di una data epoca? Ed è così che nasce l’incontro tra il fashion e l’arte: sì, perché la fotografia di moda ormai ha trovato il suo spazio nei musei e non è più considerata solo come testimonianza e ricordo del passato.



Mostre in programma



Saranno due le mostre proposte quest’anno al festival. La prima, esposta a Palazzo Reale, è una retrospettiva monografica su un grande fotografo di moda, Paolo Roversi, e si intitola Storie. Per l’occasione sono state adibite nove stanze con foto, che raccontano, appunto, nove storie diverse del passato dell’artista, dalla modella di nome Gemma, fino ai ritratti ipercontemporanei di Rihanna, passando alla sperimentazioni sulle ombre e i racconti fiabeschi.


La seconda lega la moda alla politica, Fashion & Politics in Vogue Italia. La direttrice del festival, Alessia Glaviano, vuole dimostrare che la moda non è frivola è molto di più. Infatti la mostra ripercorre, attraverso storie sulle catastrofi ambientali, sulla violenza, sulla diversità, sull’ossessione per la chirurgia plastica, la tradizione del magazine quale veicolo di moda come dichiarazione di ciò che avviene nel mondo. Le immagini di Steven Meisel, David Lachapelle, Bruce Weber, Tim Walker, Peter Lindbergh, Miles Alridge, Mert & Marcus, Ethan James Green e Ellen Von Unwert ispirano una riflessione su come la fotografia di moda abbia spesso una sfumatura politica.


Se questo week end siete a Milano o la moda e la fotografia sono la vostra passione non potete perdere questo evento. Maggiori dettagli sul programma si trovano su http://www.vogue.it/photo-vogue-festival/programma-16-novembre/ . Buona visone!



locandinaAbito Letto


Donna in abito rosso trattenuta da due poliziotti
Storie
        



                                                                   
Face the future



















Fonti:http://bit.ly/2zREZ23
         http://bit.ly/2AX5ELc
         http://bit.ly/2zOt4Cf
         http://bit.ly/2jAqpYH















mercoledì 15 novembre 2017

McCullin: dalle bande di strada alla guerra del Vietnam

Diventato famosissimo per i suoi numerosi reportage di guerra, Donald McCullin è sicuramente uno dei fotografi più apprezzati del panorama mondiale. In onore del suo grande e tormentato lavoro fotografico i registi David e Jacqui Morris hanno realizzato nel 2013 McCullin, un affascinante documentario che ripercorre i 30 anni di carriera del fotografo. È lo stesso McCullin ha raccontarsi in 91 minuti di pellicola.

McCullin: il film di una vita


Non sono stati certo 30 anni facili per Donald McCullin, fotografo che quasi per vocazione ha scelto fin da subito di rappresentare la violenza in tutte le sue sfaccettature, dalle bande di quartiere alla tragedia della guerra. Un lavoro difficile e pericoloso che spesso lo ha portato in trincea, dove ha rischiato la vita più volte. Basti pensare a un episodio risalente al 1968 quando fu proprio la sua Nikon a salvarlo da un proiettile volante. Nato a Finsbury Park, uno dei quartieri più malfamati di Londra, il suo destino è segnato quanto quello dei suoi coetanei e vicini di casa, che si riuniscono in bande di quartiere dandosi alla macchia e a soli 14 anni perde il padre, evento che lo sconvolge profondamente. Alle scorribande, però, Donald preferisce la fotografia, un mondo nuovo che gli permette di cambiare definitivamente la rotta della sua vita. Nel 1958 Don pubblica la sua prima fotografia: il ritratto di una banda di strada, intitolata The Guv’nors e pubblicata dal giornale britannico The Observer. Comincia così il percorso lavorativo del giovane fotografo, impegnato in un’indagine a tutto tondo sulla violenza e le sue conseguenze.


La cruda realtà del Vietnam


Corrono gli anni ’60, periodo duro per ogni giovane americano, costretto a partire per la guerra in Vietnam. Don McCullin non resiste e decide raggiungere i suoi cugini d’oltre oceano: vuole vedere con i suoi occhi quello che succede davvero laggiù. È in questa occasione che  nascono alcune delle foto più belle e affascinanti del fotografo, talmente toccanti da costringere più avanti il governo britannico a impedirgli di partire per le Isole Falckland nel 1982: la sua presenza sul territorio e le sue foto avrebbero portato a galla verità che l’occidente non doveva conoscere. Ma torniamo al Vietnam: a differenza dei suoi colleghi, Don sa che non basta limitarsi all’osservazione per comprendere appieno ciò che sta immortalando. Senza pensarci troppo, in più occasioni il giovane fotografo abbandona la sua macchina per correre in aiuto di qualche soldato ferito. Queste azioni eroiche gli permettono di conquistare la fiducia dei soldati. Don vive con loro e in mezzo a loro, quasi in completa simbiosi. Questa vicinanza gli permette di realizzare scatti insoliti, pianificati a tavolino: le foto di McCullin comunicano grande empatia, caratterizzata da una grande composizione scenica. Come il Marine americano che guarda con aria assente da una finestra di una casa abbandonata, in cui è ancora presente la foto ricordo della famiglia che vi abitava prima.

L’impatto emotivo è diretto: la guerra non può portare altro che desolazione. Una desolazione che si insinua nell’animo del fotografo, che perde la ragione fino a sfiorare la pazzia. Ormai la guerra lo ha segnato profondamente e niente sarà più come prima. Alla stregua di altri grandi fotografi di guerra, che come lui hanno visto in faccia la morte, in questi ultimi anni Don McCullin ha preferito dedicarsi a tutt’altro tipo di fotografia: come Salgado, anche McCullin ha optato per la fotografia naturalistica, una via che gli ha permesso di ritrovare la calma perduta in 20 anni di violenza continua. Non c’è stato solo il Vietnam nella vita di Don. Concluso quel periodo il fotografo ha viaggiato il mondo, esplorando alcuni dei territori più poveri e affamati della terra.
Questo è molto altro ancora potrete ascoltarlo dal fotografo stesso  che, diretto dalla mano sapiente dei due fratelli documentaristi, mette a disposizione di tutti gli appassionati momenti di vita vissuta, fondamentali per comprendere la sua poetica fotografica.

Francesco Lodato

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The Guv'nors, Finsbury Park, London 1958



























Fonte foto copertina: facebook.com/McCullinFilm/

venerdì 10 novembre 2017

False verità: le scomode opere di Alison Jackson

Ieri sera a Camera – Centro italiano per la fotografia, si è tenuto un incontro con la fotografa e artista Alison Jackson che, in questa occasione, ha raccontato il suo lavoro, dagli albori fino ad oggi, portando molti esempi visivi e aneddoti divertenti o meno, su ciò che le è successo a causa dei suoi lavori considerati irriverenti.

Alison Jackson: fotografa e artista



L’incontro è iniziato con il critico Luca Beatrice che si chiedeva come distinguere una fotografia di tipo documentaristico da una fotografia d’arte. Volendo, le foto di Alison sembrano essere entrambe le cose, ma guardandole più da vicino si capisce che il messaggio veicolato è: “tutto ciò che noi vediamo è falso”, l’immagine non rappresenta mai la realtà al cento per cento, essa viene comunque filtrata da sguardi di terzi. Per quanto riguarda la Jackson, lo studio dei progetti e la scelta dei soggetti è molto importante. Quando si arriva allo scatto la maggior parte del lavoro è stato compiuto.
Quello che lei fa è ricostruire delle situazioni reali o verosimili e presentarle per scuotere le coscienze di chi le guarda. La campagna su Trump è stata realizzata e mostrata prima delle elezioni proprio con questo intento.
Alison, spiega che, con l’arrivo dei social, il suo lavoro è diventato ancora più importante perché proprio grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, è riuscita a raggiungere più di un milione di persone con i suoi scatti.
Molti sono i personaggi ritratti nelle sue fotografie e video, dalla Regina Elisabetta in bagno o mentre addestra i suoi cani che non le danno ascolto, a Bush che tenta di risolvere il cubo di rubik e, ancora, Marilyn che amoreggia alla finestra con JKF. Quasi tutti i suoi lavori sembrano scatti rubati, proprio per simulare quelli dei paparazzi che rincorrono le celebrità.

Dagli esordi ai  primi problemi



Durante gli anni del college di Alison, la monarchia inglese è stata scossa da un grave incidente, la morte di Lady Diana, l’artista inglese ha deciso di presentare un progetto su di lei, su come sarebbero andate i fatti se non fosse morta, una delle immagini più celebri è quella in cui è ritratta con Dodi Al-Fayed mentre tiene un bambino in braccio. Su questo tema ha realizzato un film che purtroppo nessuno ha mai visto a causa della censura. Ma molte altre sono le difficoltà del suo lavoro, nella conferenza, ha raccontato che la ricerca per il sosia di Trump è stata estenuante, perché, in primo luogo, chi fa questo tipo di provino non sa bene cosa si deve aspettare, addirittura un signore si è rifiutato di farsi tagliare la barba sperando comunque di poter essere pagato e, in secondo luogo, ricercare la persona giusta è tutta questione di dettagli.
Non tutti gli aneddoti sono divertenti, difatti quando ci è stata data la possibilità di fare delle domande, a quella: “hai mai avuto qualche problema?” La riposta è stata: “sempre”. Ad esempio, dopo l’attacco alle Torri Gemelle Alison è stata scortata dall’antiterrorismo o ancora quando si occupava di Tony Blair, lei e la sua troupe, sono stati aggrediti dalla polizia.




Probabilmente la causa di tutti questi tumulti è che l’attività della Jackon è importante sia per il mondo dell’arte sia  per quello della politica e per questo durante tutta la conferenza la fotografa ha sottolineato che nel suo lavoro vuole simulare scene di vita privata senza diffondere delle bufale, per far capire che l'immagine ha il potere di trasformare in realtà ciò che ritrae.

Trump alla scrivaniaTrump e il KKKQueen
Foto scattata durante l'incontro con Alison Jackson
Lady D e Dodi Al-FayedMarilyn e JKF









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mercoledì 8 novembre 2017

Le disordinate geometrie interiori di Francesca Woodman

Premiato al Tribeca Film Festival nel 2010, The Woodmans è forse il film che meglio rappresenta la vita di Francesca Woodman, giovane fotografa americana morta suicida nel 1981. Ascoltando le parole dei genitori e di chi l’ha conosciuta, il regista C. Scott Willis cerca di tracciarne un identikit, che, però non riesce ad essere soddisfacente: comprendere la personalità di questa giovane fotografa risulta un’impresa assai difficile, considerata la sua grande complessità. Come tanti suoi coetanei, Francesca soffriva il “disagio di vivere”, proprio di tutte le personalità sensibili. Un’inquietudine che però nel tempo è peggiorata fino all’episodio finale: il suicidio.

Francesca Woodman: la biografia


Francesca Woodman era una figlia d’arte: suo padre è un pittore e sua madre una ceramista. La ragazza, quindi cresce totalmente immersa in un ambiente artistico che le fornisce molti spunti per sviluppare un proprio talento. Aiutata dal padre, la ragazzina sviluppa i suoi primi negativi in camera oscura all’età di 13 anni: in lei  sta nascendo quel talento artistico che segnerà poi la sua breve vita adulta. Molto interessante è il suo rapporto con l’Italia e il suo panorama artistico. Francesca conosce bene l’Italia: da bambina ha vissuto per un periodo a Firenze e a fine anni ’70 vi torna per un altro lungo periodo. Dopo l’Accademia di Belle Arti a Providence, la giovane Woodman arriva a Bologna. Corre l’anno 1977, un periodo duro (poi denominato “di piombo”), famoso per i violentissimi scontri tra gli studenti e la polizia. Però è anche un periodo di grande fermento artistico: Francesca comincia a frequentare molti degli ambienti pittorici bolognesi, inserendosi appieno nel clima artistico della città.  Nello stesso anno, a Bologna, apre la libreria Maldoror, un luogo quasi surreale, dove tra libri e quaderni antichi la giovane fotografa trova l’ispirazione giusta per le sue foto. Francesca la visita ogni giorno, trasformando la libreria in una vera e propria fonte d’ispirazione.

Francesca Woodman: le opere


L’anno dopo espone le sue prime opere proprio lì, tra gli scaffali antichi del locale bolognese. Il suo percorso artistico continua a New York, dove la fotografa si trasferisce nel 1980: Francesca continua nella sua ricerca artistica, scattando e sviluppando da sé le proprie fotografie. Spesso fotografa nudi e realizza autoritratti. Queste nuove opere vanno a comporre la sua seconda esposizione: The Swang Song, il canto del cigno. Tutta la sua produzione andrà poi a confluire nell’unica collezione fotografica da lei pubblicata: Alcune disordinate geometrie interiori. Due mesi dopo si suicida lanciandosi da un palazzo. Aveva solo 22 anni. Oggi è solo grazie al proprietario della libreria Maldoror se l’arte della Woodman vive: detentore di alcuni dei suoi numerosi scatti, l’anziano libraio li mette a disposizione per mostre ed espozioni. Le foto di Francesca Woodman, nella loro semplicità, trasmettono una grande inquietudine, un assaggio, forse, del malessere che affliggeva da tempo la ragazza. Per anni Francesca Woodman è riuscita a canalizzare il suo malessere nella fotografia, un’emozione profonda e inconscia che ha trasformato in suoi scatti in vere e proprie opere d’arte. Evidentemente, quel giorno grigio a New York, non ce l’ha più fatta, mettendo fine alla sua giovane vita e privando il mondo della sua grande arte.

The Woodmans



Il titolo del documentario di Willis fa riferimento a tutta la famiglia, The Woodmans, ma è sicuramente Francesca la protagonista. Le parole dei suoi familiari non fanno altro che ricordarla: neanche loro, dotati di una spiccata sensibilità, sono riusciti a comprendere a fondo il suo malessere. La pellicola è impreziosita dai vari filmati che Francesca era solita registrare nel corso delle sue messe in scena per gli scatti o durante brevi momenti felici di vita quotidiana. Le parole dei suoi familiari e amici scorrono insieme alle sue fotografie e ad alcuni frammenti di diario. In soli 4 anni, dal 1977 al 1981, Francesca Woodman ha segnato per sempre il mondo della fotografia, influenzando il mondo di fotografare di tutta la generazione artistica successiva. La corrente femminista dell’epoca l’ha eletta a simbolo dell’emancipazione femminile e della liberazione del corpo e per anni la critica si è interessata al suo lavoro. Chissà cosa avrebbe concepito se solo fosse vissuta più a lungo.


Francesco Lodato


autoritratto

autoritratto

autoritratto























Fonte foto: facebook.com/Francesca-Woodman-17742734946/

lunedì 6 novembre 2017

Untouched: le origini di Guy Bourdin


Untouched, il libro dedicato al fotografo Guy Bourdin uscito in questo 2017, racconta visivamente gli albori della sua fotografia di moda, quando ancora non era il colore a essere preponderante nei suoi scatti, ma già si intravedevano alcune caratteristiche che lo distingueranno in futuro: ricerca di elementi erotici o inquietanti nella vita quotidiana e scelta di angolazioni mai banali.

Kodak

























Guy Bourdin alla galleria Sozzani


Shelly Verthime, curatrice del libro e della relativa esposizione, Untouched (in mostra dal 15 ottobre al 12 novembre alla Galleria Carla Sozzani di Milano), ha spiegato che sono riflessioni intime che riguardano soprattutto la vita parigina dell’epoca. Le fotografie del libro sono state ritrovate negli archivi di Bourdin in una scatola Kodak di colore giallo. Perché mettiamo per iscritto anche il colore? Perché è questo il colore scelto per la copertina del libro, quasi come a voler ricordare ancora una volta il felice ritrovamento di queste bellissime foto. Questi lavori vanno dal 1950, periodo in cui Guy frequenta il fotografo Man Ray, al 1955, periodo in cui ha i primi contatti con il mondo della moda. Le foto "gettano una luce sui primi anni determinanti del processo creativo di Bourdin", scrive nel suo saggio Philippe Garner, vicepresidente del dipartimento di fotografia di Christie’s. Questo è, tra l’altro, il primo di otto volumi che ripercorreranno l’intera carriera del fotografo.

Le origini e le influenze del suo lavoro



Nel lavoro di Bourdin si ritrova spesso una forte componente sessuale legata alle donne. Questa sua ossessione probabilmente era il lascito dovuto all’abbandonato della madre quando era ancora molto piccolo. I pochi ricordi legati a lei riguardano soprattutto la sua figura estetica: il trucco pesante, i capelli rossi e il viso pallido. Questi elementi si ritrovano frequentemente nei suoi scatti, spesso le modelle hanno i capelli fulvi e sono ritratte in situazioni violente e sadiche, isolate in paesaggi inquietanti: stanze d’albergo, squallidi corridoi, luoghi desertici. Il corpo della donna viene scomposto e in alcuni scatti, delle donne non rimangano che le gambe e le scarpe col tacco.

Rivoluzione nella fotografia di moda



Nel 1955, il fotografo, inizia un trentennale rapporto con Vogue Francia, una collaborazione che ha portato ad un cambiamento radicale nelle linee guida della fotografia di moda. Difatti, se prima era messo in evidenza solo il prodotto, con Guy Bourdin è l’immagine e la sua intera composizione a diventare protagonista. Il fotografo ha elevato così la fotografia di moda, trasformandola in  arte. Ispirato da grandi maestri come Man Ray, Edward Weston, Magritte e Balthus, Bourdin ha cancellato la serietà classica della bellezza femminile, per farne un gioco tetro. Il corpo della donna è sempre messo in discussione e i colori violenti che utilizza diventano tratti essenziali della sua poetica, fatta di aspetti inusuali, provocatori, surreali: un po’ com’era stata la sua vita.

Se le origini di questo cambiamento vi interessano andate a visitare Untouched fino al 12 novembre a Milano-Galleria Carla Sozzani.






donna sdraita

donne sdraiate

















Donna nuda

Scarpa gialla


















Gambe a spasso


























Fonti: http://bit.ly/2yyp7E5
          http://bit.ly/2hLANch