lunedì 30 ottobre 2017

Wildlife Photographer of the Year: il vincitore di questa edizione 2017

È Brent Stirton il vincitore del Wildlife Photographer of the Year, evento fotografico giunto oramai alla sua 53esima edizione. Il fotografo ha conquistato l’ambito premio grazie a uno dei suoi tanti scatti realizzati nella riserva di caccia sudafricana di Hluhluwe Imfolozi. Intitolata Memorial of a Species, la foto di Stirton ha scosso l’intero Festival.


Wildlife Photographer of the Year: un importante concorso fotografico


Il Wildlife Photographer of the Year è sicuramente uno dei concorsi di fotografia naturalistica più importanti al mondo. Ogni anno, fotografi emergenti e professionisti accorrono da tutto il mondo per esporre le proprie foto. Caratterizzato da numerose sezioni, il concorso ha anche un parte tutta dedicata ai giovani fototografi: pensate che quest’anno, ad aggiudicarsi il premio di Young Wildlife Photographer è stato un ragazzino di appena 17 anni, autore di un bellissimo scatto che immortala un giovane gorilla della Repubblica del Congo.

Brent Stirton: Memorial of a Species


La foto di Brent Stirton, Memorial of a Species, era sicuramente quella che più di tutte meritava di vincere il premio finale. In un solo scatto, il fotografo è riuscito a rappresentare appieno la triste condizione delle tante specie animali a rischio estinzione per mano dell’uomo: Memorial of a Species è un giovane rinoceronte nero appena ucciso e scornato: le sue corna sono molto preziose, e da sempre, come quelle dell’elefante, fanno gola a molti bracconieri e cacciatori senza scrupoli. Adagiato a terra, il rinoceronte sovrasta l’intero paesaggio con la sua stazza, occupando più dei due terzi dell’inquadratura. Sullo sfondo, la riserva di caccia, luogo infernale dove questi animali vivono in costante pericolo di vita.

Memorial of a Species ha vinto per il crudo e sconvolgente messaggio che veicola: Stirton ha saputo cogliere il momento, scattando una foto che in un attimo ha catturato l’ultimo sguardo sconfitto di uno degli animali più belli e imponenti dell’Africa.

Francesco Lodato

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Fonte foto: facebook.com/realidadesimuladaa




venerdì 27 ottobre 2017

Peter Funch e la fotografia di strada

Oggi vogliamo parlarvi di un progetto particolare e singolare, soprattutto per il luogo dove è stato realizzato, all’angolo tra la 42esima strada e Vanderbilt Avenue, a New York, fuori dalla stazione di Grand Central Terminal.

Nove anni nello stesso angolo di strada



Per nove anni Peter Funch, un fotografo danese trasferito nella Grande Mela, si è piazzato in questo angolo di strada di New York tra le 8.30 e le 9.30 del mattino. Cosa stava cercando? Cosa voleva ottenere appostato nello stesso incrocio di strade per nove anni? A New York si può trovare uno sterminato parco di anime completamente diverse l’una dall’altra che passano a gran velocità per andare a lavoro o a sbrigare commissioni. Dunque è molto più facile trovare la diversità che non la ripetizione e la quotidianità.


Progetto "Babel Tales"



Lo sguardo di Peter Funch va nella direzione opposta: per nove anni ha cercato gli stessi volti, gli stessi atteggiamenti, le stesse espressioni e abitudini di chi si ritrovava a passare fuori dalla stazione Grand Central Terminal. Paradossalmente ha cercato le regolarità nel caos di New York. Questa idea può essere inserita all'interno di un suo progetto più ampio, “Babel Tales”, una serie di opere che si concentrano sulle relazioni umane, o della loro mancanza, nelle grandi città. In questo modo vuol farci notare che nonostante tutte le diversità che noi percepiamo, non siamo così distanti; molti atteggiamenti si somigliano e anche l’abbigliamento non differisce troppo, molti colori e modelli si ripetono.



Una riflessione che si può fare, grazie a queste sequenze infinite di immagini scattate in vari momenti e periodi, è che nelle grandi città ci si sente soli, si cammina per strada in mezzo a molte persone, ma non si parla con nessuno, non si comunica. Dovremmo forse dare più retta a questo artista che ci fa vedere che in realtà non siamo poi così distanti?













           

















Fonte: pinterest.com/pin/229613280985019581/
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mercoledì 25 ottobre 2017

Vivian Maier: il documentario necessario

Cosa rende le fotografie di Vivian Maier così speciali? Forse il fatto che rappresentano un mondo passato, una New York anni ’60 che abbiamo imparato a conoscere solo grazie ai film. Siamo stati talmente abituati a vedere le opere di Scorsese, Woody Allen e i grandi cult della cinematografia mondiale, che abbiamo della Grande Mela un’immagine tutta nostra, affascinante e suggestiva. Questa magia non si limita solo a New York: grazie al cinema abbiamo imparato a conoscere e amare Los Angeles, Chicago, Boston. Abbiamo simpatizzato con la malavita, i giustizieri della notte e i pubblicitari di Madison Avenue. Ci siamo innamorati di bellissime donne bionde a cui abbiamo offerto un drink in un locale fumante e abbiamo vagato per le strade fredde di New York, mani in tasca, alla ricerca di un cinema dove trovar rifugio.

Finding Vivian Maier


Ma, se queste  nostre immagini cinematografiche non sono altro che riproduzioni della realtà, influenzate dalle necessità narrative dei film, le foto della Maier raccontano una New York quotidiana, reale, genuina: senza filtri. Esse rappresentano donne, uomini e bambini della metropoli catturati dalla sua rolleiflex e resi eterni. È forse questo uno dei tanti motivi per cui le sue foto sono ormai al centro dell’attenzione della fotografia mondiale. Vivian Maier racconta una città perduta, con i suoi costumi e la sua quotidianità. Muratori, storpi, divi, giochi di specchi riflessi e ombre sulle strade vive della città: da queste opere traspare una personalità misteriosa, quella di una bambinaia paranoica e compulsiva, che per tutta la sua vita non ha fatto altro che collezionare ritagli di giornale e scattare fotografie. Vivian era fondamentalmente una donna sola, oscura, e con un particolare odio verso gli uomini: sentiva costantemente in pericolo la sua posizione di donna nella società moderna. Chi era davvero Vivian Maier? Per tutta la vita è stata una donna anonima, morta in povertà assoluta nel 2009.

Vivian Maier: la necessità di un documentario


Eppure, se solo avesse voluto, sarebbe potuta diventare una delle più grandi fotografe del panorama mondiale già negli ’60. Ma così non è stato. Una coincidenza, o forse, il destino, hanno voluto che un giovane ragazzo, alla ricerca di foto per un libro, si sia imbattuto in un misterioso scatolone, contenente migliaia di rullini ancora non sviluppati. Preso dalla curiosità, John Maloof ha cominciato a stampare le foto, scoprendo in esse una grande artista e fotografa. Nasce quindi il mito di Vivian Maier, così, per caso. Di questa storia se ne è fatto anche un film: Finding Vivian Maier, tra l’altro anche candidato agli Oscar come Miglior Documentario nel 2015. La pellicola racconta la storia di un giovane ricercatore, che quasi con la stessa compulsione dell’artista, è riuscito a raccogliere tutte le informazioni possibili sul conto della donna, contattando e intervistando chiunque l’avesse conosciuta. Ne è venuto fuori un’identikit sconvolgente.

Chi era Vivian Maier?



Il mistero si fa sempre più fitto: chi era Vivian Maier? Era di New York, o davvero arrivava da qualche sperduto villaggio francese? Per molti era una dolce bambinaia appassionata di fotografia e un po' matta, per altri una donna oscura, violenta, che da tempo ormai aveva oltrepassato il limite della follia. In Vivian si nascondeva un passato tragico, un qualcosa di non superato, che la donna esorcizzava per mezzo delle sue manie. Se avesse voluto, avrebbe potuto presentare i suoi lavori a qualcuno d’importante a New York, invece sembra che a lei interessasse soltanto l’attimo dello scatto, quel momento istantaneo in cui riusciva a cogliere l’essenza del suo soggetto. Le sue foto sono sempre ravvicinate, a un palmo dai suoi modelli: vecchi clochard, bambini in preda al pianto, bellissime donne. Vivian era “solo una bambinaia”, è vero, ma conosceva molto bene le potenzialità della sua macchina fotografica: comprendeva il valore della composizione di un’inquadratura, sapeva sfruttare la luce a suo favore e, soprattutto, sapeva cogliere l’attimo. Immaginatevela camminare per le strade di New York, con appresso i suoi bambini, suoi grandi compagni di vita. Ogni istante, movimento, sguardo che poteva sembrarle interessante, veniva intrappolato da uno scatto. E così, giorno dopo giorno, Vivian ha continuato a scattare, in maniera compulsiva, ai limiti della malattia. Registrava tutto quello che le accadeva attorno. Era affascinata da tutto ciò che vedeva: un clown triste, dei bambini che giocano per strada, delle donne che leggono il giornale sedute su una scala, osservate in lontananza da un marinaio. Vivian si fermava, osservava, percepiva la poesia del momento, metteva a fuoco e scattava. Così, per tutta la vita. Probabilmente aveva una grande paura di essere dimenticata. Forse, sapeva che un giorno qualcuno avrebbe visto e apprezzato le sue fotografie. Quello che sappiamo è che Vivian comprendeva la validità delle sue piccole opere fotografiche, che niente avevano da invidiare a quelle dei grandi fotografi dell’epoca. Eppure l’unica richiesta di stampare le proprie opere era stata fatta a un piccolo stampatore francese, abitante del suo piccolo villaggio d’origine in Francia. Perché proprio lui? Perché tra i tanti stampatori di New York ne aveva scelto uno che abitava lontanissimo e che tra l’altro non l’ha neanche presa sul serio? 

Questo è un mistero che difficilmente riusciremo a risolvere. Quello che conta, ora, è che il suo vasto e immenso materiale sia finalmente fruibile al grande pubblico, che di anno in anno, ne è sempre più entusiasta. Il mondo della fotografia ringrazia il giovane John Maloof che ha avuto il coraggio, la passione e la forza di farsi carico di un’impegno così grande: trasformare una vecchia bambinaia in un’immortale grande fotografa.



Francesco Lodato
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Fonte foto: facebook.com/photographervivianmaier/


lunedì 23 ottobre 2017

Louise Dahl-Wolfe e il nuovo volto della fotografia di moda

Il 20 ottobre è stata inaugurata, al Fashion and Texile Museum di Londra, la retrospettiva su Louise Dahl-Wolfe, una delle prime fotografe che si è occupata di moda.



























                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         




Chi è Louise Dahl-Wolfe ? Studi e prime pubblicazioni




I suoi primi studi di design e di pittura avvengono alla Scuola di Belle Arti della California e successivamente, alla Columbia University di New York, apprende disegno, decorazione e architettura. Anche se ancora non si occupa di fotografia, questa prima fase di avvicinamento al modo artistico sarà molto importante per la sua produzione futura, nella quale non scorderà l’arte del pennello e delle geometrie architettoniche. Scopre la fotografia nel 1921 grazie a Anne Brigman, fotografa pittorialista, che aveva come obiettivo quello di innalzare la fotografia al pari delle arti classiche. Per la Dahl-Wolfe stessa la macchina fotografica non lascia la libertà di poter creare elementi che non esistono. Ad ogni modo la fotografia diventa il suo lavoro solo dopo che Vanity Fair pubblica, nel 1933, una sua foto. Grazie a questa spinta apre il suo studio a New York, nel quale lavora fino al 1960. In quegli anni la sua collaborazione più famosa e duratura è quella con la rivista Harper’s Bazaar dove lavora a stretto contatto con Diana Vreeland, giornalista e direttrice artistica del giornale.

Moda e modernità


Il suo modo di fotografare e comporre le foto dà un taglio contemporaneo e informale alle fotografie di moda, ma nei suoi scatti si può trovare molto di più, Louise riesce a dare alle proprie modelle uno stile personale e contribuisce così a creare le prime generazioni di supermodel comeSuzy Parker, Jean Patchett e Mary Jane Russell, famosissime negli anni Cinquanta. Le sue fotografie sono meno “pompose” rispetto a quelle del passato: inizia a usare il colore, la luce naturale e sopratutto nella sua produzione sono importanti i viaggi. Infatti si sposta molto per allestire i suoi set, scegliendo destinazioni esotiche come Cuba, Tunisia, Sud America e Spagna. Oltre ai viaggi nelle sue foto si trovano spesso carte geografiche e mappe, quasi a ricordare l’eleganza del viaggiare per scoprire nuove culture. Inoltre si ritrova una vena surreale che porta lo spettatore non solo a vedere l’abito indossato, ma anche a viaggiare con l’immaginazione.

La mostra di Londra ripropone più di cento fotografie realizzate da Louise Dahl-Wolfe tra il 1931 e il 1959, non solo di moda ma anche ritratti a personaggi importanti come: Bette Davis, Orson Welles e Vivien Leigh. Una bella occasione per gli appassionati di fotografia e moda di ripercorrere la carriera di colei che ha cambiato lo stile delle fotografia di moda.



Harper’s Bazaar, marzo 1943





Louise Dahl-Wolfe

Modella in barca






















































































                                                             
Fonte: facebook.com/search/str/louise+dahl-wolfe/photos-keyword
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sabato 21 ottobre 2017

Il vivace e curioso mondo di David Hockney

Mercoledì sera siamo stati da Comodo 64, che ha proiettato il documentario di un artista polivalente e innovatore: si tratta di David Hockney, l’artista biondo e con gli occhiali tondi che da sempre lo contraddistinguono.


David Hockney: le immagini come punto di partenza


David, famoso soprattutto per i suoi dipinti, in realtà si prodiga in quasi tutte le arti visive: illustratore, incisore, disegnatore, tipografo, fotografo e scenografo. Comunque, il punto di partenza sono sempre le immagini. Nel documentario racconta di come ha accolto il cinema nella sua vita. Per lui e i suoi amici non esistevano i film, “andiamo a vedere le immagini” dicevano all’epoca. Sicuramente, la sua passione e il suo talento si sono riversati, per la maggior parte, nella pittura, dove, per tutta la carriera ha sperimentato sempre nuove tecniche di colore e formati. Senza dubbio, anche le fotografie hanno contribuito a creare la sua estetica e il suo immaginario visivo, a partire dalle prime riviste pornografiche gay, diventate famose per essere state sequestrate alla dogana mentre tornava dall’America. Pensate che per riaverle ha anche dovuto assumere un avvocato.


Fotografia e collage


I suoi dipinti più famosi partono quasi sempre dallo scatto di una foto, come Beverly Hills Housewife: nell’immagine di partenza si vedono gli stessi elementi che ritroviamo nel dipinto (come la chiase longue e la signora che spolvera le teste), ma con colori diversi dalla realtà. Infatti, le fotografie che utilizza come partenza per i suoi quadri sono quasi sempre in bianco e nero, a dispetto dell’importanza che il colore ha nella sua produzione. Questo gli permette, come spiega nel documentario, di non essere influenzato e distratto dai colori fuorvianti che le foto ripropongono. I suoi lavori fotografici più famosi sono i collage di Polaroid, creati nel decennio degli anni ‘80, influenzate dalle immagini di grandi dimensioni di memoria cubista (David ha sempre amato Picasso). 

Il documentario Hockney ripercorre la vita dell’artista per capitoli, questa ne è solo una parte, quindi se volete conoscere altro di questo biondo artista non vi resta che guardare il film di Randal Wright uscito nel 2014. Buona visone!

Donna che spolvera teste
Collage Hockney


Uomo nudo prende il sole


















Fonte fotografica: https://www.facebook.com/search/top/?q=polaroid%20hockney


mercoledì 18 ottobre 2017

Il sale della terra: l'affascinante documentario dedicato al grande lavoro di Sebastiäo Salgado

Il sale della terra è un film-documentario dedicato alla lunga carriera di uno dei più importanti fotografi della nostra società contemporanea. Realizzato da un altro grande maestro della cinematografia, Wim Wenders, Il sale della terra regala allo spettatore un identikit esaustivo del Sebastiao Salgädo fotografo e  uomo. Riguardare Il sale della terra, uscito nel 2014, potrebbe essere una buona idea per prepararsi alle due mostre dedicate al fotografo, che si terranno a partire dalla fine di ottobre: la prima, Kuwaitt – Un deserto in fiamme, che prenderà il via a Milano, a partire dal 20 ottobre e che per l’occasione vedrà lo stesso fotografo protagonista di un incontro pubblico, e la seconda, invece, dedicata a una delle sue ultime produzioni, Genesis, in mostra a Napoli dal 18 ottobre 2017 fino al 28 gennaio 2018. Insomma, quale momento migliore per godersi 100 minuti in compagnia di uno dei più interessanti testimoni della razza umana, che per tutta la vita ha viaggiato nel mondo, immortalando alcuni dei momenti più bui della storia. Ma facciamo un passo indietro.

Il sale della terra, un film di Wim Wenders


Ad affiancare il regista Wim Wenders in questa avventura cinematografica c’è anche Juliano Ribeiro Salgado, figlio del fotografo, che per tutta l’infanzia ha visto il padre molto di rado, sempre impegnato nei suoi viaggi. Per Juliano, Sebastiäo era come un supereroe, un grande uomo coraggioso immerso nelle sue avventure. In quegli anni, Salgado era nel pieno della sua produzione: insieme alla moglie Lèlia, che lo ha sempre supportato, ha ideato alcuni dei migliori volumi della fotografia mondiale, per i quali ci sono voluti decenni di viaggi per il mondo prima di essere portati definitivamete a termine. Wim Wenders li ha voluti ripercorrere tutti, partendo dal principio: la nascita del fotografo Sebastiäo Salgado.

La nascita di un fotografo


Cresciuto in una grande casa immersa nella foresta del Brasile, Sebastiäo vive in mezzo alle sue sette sorelle e ai suoi genitori, completamente immerso nella natura. Partito per l’università, il giovane studente si iscrive alla facoltà di economia, diventando presto un bravo economista. Nel frattempo conosce Lèlia, la donna insieme alla quale cambierà il suo destino. Giovane architetto, Lèlia compra la prima macchina fotografica per lavoro, ma è Sebastiäo che se ne innamora fin da subito. Il giovane economista ne è così affascinato da portarla con sé nei viaggi di lavoro, tornando a casa sempre con un gran numero di fotografie. Presto, capisce che più che per l’economia, Sebastiäo è portato per la fotografia. Così prende una grande decisione: lascia tutto, il lavoro sicuro e una carriera assicurata, per cimentarsi in ciò che ormai per lui è diventato essenziale, l’arte della fotografia.


Sebastiäo Salgado: da Other Americas a Genesis


Probabilmente il giovane Salgado ancora non sapeva a che cosa sarebbe andato incontro negli anni a seguire e quanto tempo sarebbe dovuto rimanere lontano da casa prima di rivedere la sua famiglia. Wim Wenders ripercorre insieme al fotografo quei momenti, grazie ai quali il Sebastiäo è stato testimone di alcuni dei più efferati genocidi della storia dell’uomo. Con i volumi Other Americas, Sahel – The End of the Road, Workers e Exodus, Salgado ha raccontato gli avvenimenti più tragici e violenti della storia dell’uomo, dagli anni ’70 ad oggi. Le sue foto non possono lasciare indifferenti: mostrano uomini e donne distrutti dalla fame e dalle malattie, senza che nessuno fino ad allora ne sapesse niente. È stato obiettivo principale del fotografo, infatti, portare tutte queste vicende all’attenzione del mondo occidentale, come il genocidio del Rwanda. Sebastiäo aveva, così, finalmente fornito dei volti ai piccoli trafiletti dei giornali occidentali dedicati ai genocidi, alle migrazioni e alla fame. Di questa vastissima produzione, l’associazione Forma Meravigli di Milano ha deciso di dedicare una mostra agli scatti di Salgado nel Quwaitt, realizzati nel 1991. Un lavoro molto caro al fotografo, riuscito a immortalare per sempre lo scempio ambientale perpetrato dal governo iracheno, deciso a incendiare tutti i pozzi petroliferi di quel territorio. Scatti poi inseriti nel volume Workers. È questo forse uno dei momenti più affascinanti del film di Wenders, che accompagna i racconti del fotografo alle foto di quel grande “spettacolo esplosivo.”

Sebastiäo Salgado: l’uomo


Ma cosa ne era rimasto dell’uomo Salgado? Tornato dal Rwanda, Sebastiäo era un uomo malato. Non aveva nessuna malattia infettiva, ma la sua anima era compromessa per sempre. Aveva visto ciò che nessun uomo dovrebbe vedere o vivere, un tipo di sofferenza che nessuno potrà mai dimenticare. Sebastiäo “era sceso nel cuore delle tenebre e si interrogava sul suo lavoro di fotografo e di testimone della condizione umana”. Per questo motivo la sua produzione cambia leggermente direzione: nasce il volume Genesis, un atlante antropologico, un viaggio alla scoperta di zone della terra ancora incontaminate. L’avvicinamento al mondo della natura, per salvarsi dai ricordi della violenza efferata dell’uomo, ha risanato l’animo di Sebastiäo che, insieme alla moglie è anche riuscito nell’impossibile missione di ripopolare la foresta che circondava la casa in cui è nato in Brasile: lì dove prima c’era terra arida e morta, ora c’è una foresta, la Mata Atlantica, figlia del progetto Instituto Terra. Grazie all’associazione, la famiglia Salgado è riuscita in 10 anni a piantare milioni di alberi, ridando vita all’intera area.

Quella di Sebastiäo Salgado è una grande storia, un’avventura che Wim Wenders non ha potuto non raccontare. Oggi anche noi avremo la possibilità di ammirare dal vivo le sue opere, visitando le mostre di Napoli e Milano, presto visibili al grande pubblico.

Francesco Lodato


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Fonte foto copertina: facebook.com/Sebastião-Salgado-403718786335507/




lunedì 16 ottobre 2017

Mountain Men: gli uomini della montagna visti da Steve McCurry

Manca poco più di un mese al termine della mostra fotografica del grande Steve McCurry, Mountain Men. La bellissima esposizione è presente sul territorio valdostano già dal 28 maggio, e sta riscuotendo, naturalmente, un grandioso successo.  

Mountain Men: la fotografia di Steve McCurry al Forte di Bard


Per la felicità degli abitanti di Bard, piccola comunità valdostana, a inaugurare Mountain Men era presente lo stesso fotografo che per l’occasione ha deciso di tenere un corso di fotografia. Un workshop imperdibile a cui, ora, alcuni fortunati possono dire di aver partecipato. Imparare i segreti del mestiere da uno dei più grandi maestri di fotografia degli ultimi 50 anni è, credo, il sogno di ogni appassionato di fotografia. Ma torniamo alla mostra: Steve McCurry ha deciso di esporre 77 fotografie rappresentanti i paesaggi montani e i suoi abitanti, partendo dall’Afghanistan fino ad arrivare in India, passando per l’Etiopia e le Filippine. Insomma, un vero e proprio viaggio nel mondo, attraverso un’esposizione unica. Quello che McCurry racconta in questi scatti è la quotidianità di popoli che ogni giorno vivono tra le montagne del mondo, con le proprie tradizioni e stili di vita. Mountain Men presenta anche una campagna del fotografo realizzata proprio in Valle D’Aosta, un lavoro fino ad ora rimasto inedito. Quale onore entrare nella produzione di uno dei più grandi maestri della fotografia per le montagne valdostane!


In continuo movimento


I valdostani diventano così i nuovi protagonisti della fotografia di Steve McCurry, fotografo da tutta la vita in perpetuo movimento, sempre alla ricerca di nuovi volti e vite da immortalare. Pensate che il suo viaggio è cominciato da giovane freelance, quando con in spalla uno zaino contenente qualche straccio e tanti rullini è partito alla volta dell’India. Da quel giorno, McCurry non è stato più lo stesso: il giovane giornalista si è trasformato in un avventuriero, uno dei pochi testimoni dei più grandi avvenimenti storici del Medio Oriente. Immaginatelo entrare clandestinamente in Afghanistan, con vestiti tradizionali e barba lunga, in compagnia di numerosi Mujahidin. È in quel periodo che il giovane fotografo scatta una delle sue foto più enigmatiche: La ragazza Afgana. Dopodiché ha continuato a viaggiare, diventando uno dei testimoni più autorevoli delle guerre mediorientali e donando al mondo scatti di grandiosa bellezza.

Avere avuto un fotografo di tale spessore come ospite d’onore è stato un grande privilegio per tutti gli appassionati di fotografia presenti. A noi, invece, che non abbiamo partecipato al workshop, non resta che andare ad ammirare le foto di Mountain Men.

Francesco Lodato



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steve_mc_curry_aosta

steve_mccurry_bambino
















Fonte foto copertina: facebook.com/stevemccurrystudios/

venerdì 13 ottobre 2017

Manifesto estetico di camerachiara

Vogliamo qui pubblicare il “Manifesto estetico” di camerachiara, una serie di punti specifici che contraddistinguono l’arte fotografica della galleria. Una presa di posizione che definisce il suo obiettivo estetico: il raggiungimento della pura astrazione.

La poetica essenziale di camerachiara si può semplificare in 7 punti.


#attenzione per il dettaglio

Nelle immagini di  camerachiara  i dettagli sovente assumono il ruolo di protagonisti; attraverso il taglio dell'inquadratura risultano decontestualizzati lasciando spazio all'interpretazione, che prescinde dalla realtà contestuale.

#astrazione ed empatia

le immagini di camerachiara sembrano oscillare tra due poli: da una parte l’astrazione delle forme (che si dà attraverso tagli geometrici che impediscono un’interpretazione immediata dei soggetti); e dall’altra l’empatia, ricercata in luoghi riconoscibili che verosimilmente mostrano a chi osserva scorci familiari in cui ritrovarsi. 
I due poli sovente sono compresenti e la loro continua oscillazione porta l’osservatore a perdersi nell'immagine;

# il contrasto cromatico: un elemento nodale per #camerachiara

Importante (quasi necessario) è il contrasto che si dà fra i bianchi e i neri o tra i toni cromatici forti; per generare una visione diversa da quella attesa nel quotidiano e permettere a chi osserva un punto di vista "sospeso", nel tempo e nello spazio.

#reiterazione di linee e forme

L’equilibrio estetico delle immagini è fornito dalla ripetizione delle geometrie che armonizza la composizione. Linee parallele e diagonali diventano punto di riferimento da cui partire per leggere l’immagine.


#assenza di testimoni di scala straniamento della percezione

Le immagini di camera chiara sono, in effetti, scorci reali del mondo, ma resi irriconoscibili dall’assenza di un punto di riferimento reale.  Un’assenza da cui scaturisce un effetto straniante.

#le sole figure umane presenti sono gli osservatori

Ad aumentare la sensazione di straniamento è la totale assenza di figure umane, abitanti di un mondo che tutti conosciamo. Lo spazio di camerachiara appare così come un mondo disabitato.


#Perdersi

L'assenza di elementi che permettono la percezione delle tre dimensioni amplifica l'incertezza dello spettatore, determinando una sorta di "semiosi illimitata" dell'immagine: sotto il profilo del significato il "resto non è mai uguale a zero" e la stessa fotografia può aprire sentieri di senso molteplici, dilatando così il tempo di lettura.