martedì 5 giugno 2018

La fotografia di Leo Matiz: Macondo e Frida Kahlo simboli di un'America antica e quasi dimenticata.


La città di Macondo non è mai sembrata così reale: è Leo Matiz a mostrarcela attraverso le sue bellissime immagini, che raccontano i volti e le vite degli abitanti di Aracataca, cittadina colombiana ribattezzata Macondo dalle pagine di Cento anni di solitudine, romanzo del connazionale Gabriel Garcírquez.

Macondo: la città sospesa nel tempo e nello spazio


Così, già influenzati dalle pagine del grande scrittore, ci ritroviamo a osservare le immagini di Leo Matiz con l’occhio ben allenato, pronti a scovare gli elementi magici presenti in ognuna delle 70 immagini esposte in mostra: vecchi poeti, anziane donne, agili ballerine e giovani ma già esperti pescatori  sono così avvolti da una coltre magica, che fa di loro gli abitanti di un luogo incorruttibile e irreale.

I  luoghi e gli scorci conosciuti attraverso le pagine di Màrquez diventano ora immagini tangibili, popolate da figure reali e in carne e ossa, come per magia liberatisi dalla trappola della carta stampata e tornate a girovagare per quell’angolo remoto di mondo, da tutti conosciuto con il nome di Macondo.

Leo Matiz: da Macondo alla Casa Azul, simboli di un’America dimenticata


È tra queste figure ancestrali che spicca la figura di un’altra grande artista, Frida Kahlo, immortalata dal fotografo "macondiano" tra le mura della Casa Azul, storica dimora eretta nella cittadina di Yocotan, Città del Messico.

Nonostante la distanza che separa le due cittadine, la pittrice sembra quasi una delle abitanti onorarie del paese di Macondo, sulla cui collina più alta sorge la Casa Azul, oggi più che mai intrisa di memoria, storia e magia.

Così, dalla Casa Azul della Kahlo agli abitanti di Macondo, Leo Matiz racconta la sua America, la terra che gli ha donato i natali e a cui lui ricambia il favore esaltandone l’elemento magico e spirituale, proprio di un popolo ancora legato a riti ancestrali tramandati da padre in figlio.

Tutto questo lo potete ammirare alla Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, che dopo averla inaugurata questo marzo, chiuderà i battenti il 10 giugno 2018.

Mancano solo pochi giorni: il consiglio è di varcarne la soglia dopo aver letto qualche suggestivo passo di 100 anni di solitudine, probabilmente, la migliore chiave di lettura delle opere fotografiche di Leo Matiz.

Francesco Lodato


Frida Kahlo fotografata da Leo Matiz

Giovane pescatore intento nel lanciare una rete

Giovani acrobate del circo di Macondo

giovedì 31 maggio 2018

Open Stage: Kyle Thompson porta alla Reggia di Caserta la sua personalissima fotografia concettuale surrealista


Fino al 4 giugno la Reggia di Caserta ospiterà uno degli artisti più giovani e interessanti della fotografia concettuale surrealista, Kyle Thompson, il 26enne americano atterrato in Italia in occasione della sua prima personale italiana, Open Stage.

La fotografia come strumento di evasione: l’arte di Kyle Thompson


Timido e introverso, Kyle Thompson ha trovato nel mezzo fotografico lo strumento ideale per esprimersi e raccontarsi al mondo. È lui uno dei protagonisti principali delle sue opere, ambientate spesso in una realtà deformata e surreale.

Questi scenari sembrano provenire dal mondo onirico dei sogni, scaturiti direttamente dall’inconscio dell’artista. Così, i boschi, le case abbandonate, i laghi e i fiumi diventano gli elementi portanti di una narrazione da sogno, costantemente alla ricerca di nuove “realtà” da rappresentare.

Abituato alla solitudine, Kyle è fuggito dalla città alla scoperta di luoghi ancora incontaminati. Qui, l’artista progetta e mette in piedi precise scenografie che trasformano completamente la realtà di cui lui è quasi sempre il protagonista.

È questo suo talento nel riproporre spazi “filtrati” che ha destato l’attenzione della critica internazionale nei suoi riguardi. Con pochi ed essenziali oggetti di scena, Kyle riesce a esprimere la sua personale maniera di percepire se stesso e la realtà che lo circonda.

"Necessitavo di un modo per incanalare le mie emozioni. Sentivo che gli autoritratti le esprimevano senza dover ricorrere alle parole. Quindi ho finito per usarmi in quasi tutte le foto, passando parecchie ore ogni giorno a girovagare da solo attraverso foreste vuote facendomi autoritratti".

Open Stage: la personale alla Reggia di Venaria


Alla Reggia di Caserta, l’artista ha messo in piedi una mostra suggestiva, che indaga sul rapporto tra sogno e realtà. Il giovane fotografo trasforma le ambientazioni naturali e incontaminate che, raggiunte da una sottile coltre di fumo, diventano, spesso, luoghi inquietanti e da incubo.

Thompson ha progettato la mostra esponendo una serie di dittici, composti dall’opera originale e da un’immagine più piccola, raffigurante lo spazio reale al quale lo scorcio deformato, e protagonista dell’opera, appartiene.

Trasformati dalle scenografie ricercate e surreali, questi luoghi diventano così il simbolo dei traumi infantili, degli incubi e delle paure dell’artista.

Quale modo migliore per esorcizzarle e liberarsene definitivamente?

Francesco Lodato





sabato 17 marzo 2018

Robert Capa: chi ha scattato davvero Il miliziano colpito a morte?



Robert Capa è senza dubbio uno dei più grandi fotografi del ‘900: i suoi scatti hanno influenzato gran parte del foto-reportage di guerra. 

Tra le sue foto più famose spicca Il Miliziano colpito a morte, considerata ancora oggi una delle immagini più iconiche del XX secolo. 

Questa leggendaria foto, scattata durante la Guerra Civile Spagnola, è avvolta da un grande mistero, dovuto alla sua paternità: infatti, sembra che non sia stato Capa a scattarla ma una sua assistente. Lo rivela il fotografo turco Ara Guler, anch’egli appartenente alla cerchia dell’agenzia Magnum, di cui Capa (insieme all’amico Henri Cartier-Bresson) fu il fondatore.

Robert Capa: biografia e opere


Indomito, spericolato e grande amante delle donne, Robert Capa incarna il mito dei più grandi reporter di guerra.  Nato e cresciuto a Budapest, ancora studente universitario si trasferisce a Berlino, città che, all’alba della Seconda Guerra Mondiale, deve abbandonare a causa delle sue origini ebraiche. 

Giunto a Parigi si avvicina al mondo della fotografia, iniziando a lavorare fin da subito come freelance autodidatta. Il suo grande spirito d’avventura  lo spinge a lavorare su più fronti, documentando alcune tra le guerre più tragiche del primo Novecento, come la Guerra Civile Spagnola (1936/1939), la Seconda Guerra Sino-Giapponese (1938) e la guerra Arabo-Israeliana (1948).

Il grande successo lo travolge verso la fine degli anni ’40, quando insieme ai colleghi Henri Cartier-Bresson, David Seymour, Georges Rodger e William Vandivert, fonda una delle più grandi agenzie fotografiche mondiali: la Magnum Photos, il collettivo artistico destinato a influenzare intere generazioni di fotografi, come Ara Guler unico fotografo Magnum della seconda generazione ancora in vita.

Il miliziano colpito a morte: il mistero sulla sua vera paternità


È stato proprio Guler a sfatare l’aura mitica che aleggiava attorno alla figura di Robert Capa: secondo il fotografo 93enne, Capa non era un artista completo e si interessava più alle donne che alla fotografia. Inoltre, si ipotizza che Il miliziano colpito a morte non sia stata scattata dal fotografo ungherese ma da una sua assistente, Gerda TaroSolo in un secondo momento, dopo aver compreso la potenza espressiva della foto, il fotografo se ne appropriò, presentandola al mondo come sua.

Il miliziano colpito a morte era già stata oggetto di polemica e per anni sono stati in molti a chiedersi se si trattasse di un immagine costruita o casuale. Oggi, Guler insinua dubbi anche sulla reale paternità dell’opera.

Chi è stato a immortalare uno degli scatti più significativi del’900? La fotografa comunista tedesca Gerda Taro, assistente di Robert Capa e morta prematuramente a 27 anni, non ha mai potuto avere voce in capitolo sulla questione e fino a prova contraria, per tutto il mondo Il miliziano colpito a morte apparterrà per sempre al grande fotografo ungherese.

Francesco Lodato


Il miliziano colpito a morte di Robert Capa







giovedì 8 marzo 2018

Lisette Model, la fotografa viennese considerata una delle più grandi precorritrici della street photography


Lisette Model era tanto elegante quanta sconcia. Era capace di intrattenere gli angeli in cielo e sbirciare impudicamente sotto le loro vesti. Nel suo lavoro c’era qualcosa in agguato, un’essenza profondamente animata. Critica, ma anche fonte di vita: abbracciava la mortalità che ci attende tutti sin dalla nascita, sapendo che ogni impulso si atrofizza subito se non viene fissato in un’immagine. La fotografia era l’unico mezzo adatto a quella dinamica, e Lisette l’abbracciò in tutti i suoi gesti.”  Larry Fink

Nata a Vienna nel 1901 in una ricca famiglia ebrea, Lisette Model ha frequentato i migliori circoli artistici della città. Dopo aver studiato Belle Arti, si trasferisce a Parigi e si sposa con il pittore Evsa Model. Inizia a fotografare alla fine degli anni '30 nel sud della Francia. Uno dei suoi primi progetti è Promenades des Anglais, lavoro che viene pubblicato sulla rivista PM, quando si trasferisce in America nel 1938. Il suo è un successo immediato, che le aprirà le porte per numerose mostre. Dal 1941 al 1955 collabora con Harper's Bazaar, e nel 1951 diventa docente della New School for Social Research a New York, dove continua a insegnare fino alla sua morte, avvenuta nel 1983.

Primi lavori: la fotografia e i molteplici punti di vista


Trasferitasi in America, Lisette inizia lavorando a un reportage fotografico su Coney Island. Il primo lavoro, poi, le viene commissionato da Harper's Bazaar, rivista per la quale la fotografa s'impegna a ritrarre persone normali, ma con uno sguardo che coglie attimi allo tempo stesso tempo comuni e irripetibili: comuni perché riguardano la vita quotidiana di ognuno di noi e irripetibili in quanto la Model cerca di andare oltre l’azione visibile, rendendo percettibile un significato ben più complesso.

Fin dall’inizio le fotografie di Lisette non voglio essere esteticamente accattivanti, ma cercano di mettere in relazione il soggetto con ciò che lo circonda. Una delle sue foto più famose è The Bather, un ritratto di una donna grassa e gioiosa in costume da bagno nero, meravigliosamente spiaggiata. Come la fotografa amava ripetere: “È facile immaginare quanto sia noioso dipingere un bel corpo. Ma un corpo brutto è molto affascinante“. In sostanza il suo intento non era un risultato fotografico perfetto, ma permetterci di avere uno sguardo più approfondito sulla realtà che ci circonda.

Anche nei lavori successivi lo sguardo della fotografa è messo in rilievo, in quanto non ci permette di vedere la quotidianità dal nostro solito punto di vista. Ne sono un esempio le celebri serie Reflections e Running Legs, in cui la Model cattura, nel primo caso, le donne che ammirano le vetrine in un gioco di rilessi tra manichini e clienti e nel secondo, in primo piano vediamo le gambe dei newyorchesi che camminano freneticamente per le strade della città.


Lisette Model: la fotografa che ha fatto scuola


Lisette Model non si limita a fotografare, ma è anche un'insegnante, e da lei i suoi studenti apprendono la capacità di innalzare le situazioni mondane e le persone comuni ad arte. Lisette crede che la macchina fotografica sia un mezzo per esplorare e allo stesso tempo sia il mondo fisico che quello interiore. Dunque, per lei, una fotografia deve rivelare qualcosa del soggetto ma anche del fotografo.

Un altro importatane riferimento, nella sua ricerca, è il corpo femminile, rappresentato in svariate forme e declinazioni, per liberarlo dalla visione stereotipata della donna occidentale di madre e casalinga e mettendone in risalto l'individualità, il fascino, il mistero di ognuna. Molti sono i fotografi che si sono formati ispirandosi alle sue immagini, come, Larry Fink, Eva Rubinstein, Bruce Weber, Diane Arbus, che, oltre a essere una sua collega, è stata anche una sua grande amica.
Sara Mastaglia

Signora in costume nero spiaggiata

Piedi con stivali































Fonti: http://bit.ly/2IayFXa
           http://bit.ly/2FkNzMK
           http://bit.ly/2Flwimx











giovedì 1 marzo 2018

Henri Cartier-Bresson: il padre della Magnum Photos alle prese con la sezione aurea


Fino al 3 giugno 2018, presso il Museo dell’Ara Pacis di Roma si avrà la possibilità di ammirare alcuni degli scatti più suggestivi del gruppo Magnum Photos, la gloriosa agenzia che più di tutti ha saputo interpretare le trasformazioni politiche e sociali del secolo scorso. Tra tutti gli artisti che ne hanno aderito spicca la figura di Henri Cartier-Bresson, mentore e fondatore. Ci troviamo nel 1947, e il giovane Bresson si è da poco trasferito negli States: qui, il fotografo convince gli amici Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert a unire le forze per dare vita al progetto collettivo che ancora oggi rappresenta uno degli episodi più importanti della storia della fotografia.  

Henri Cartier-Bresson: la passione, la guerra e Magnum Photos


Henri Cartier-Bresson è stato uno dei più grandi fotografi di sempre: l’artista ha saputo cogliere lo spirito del ‘900 meglio di chiunque altro, conquistando a pieno diritto il titolo onorario di “occhio del secolo”. Il fotografo ha saputo raccontare lucidamente la guerra civile spagnola, l’occupazione nazista, i funerali di Gandhi; pensate che è stato l’unico fotografo occidentale a varcare i confini dell’Unione Sovietica in piena Guerra fredda. Nato come pittore e poi prestato al mondo del cinema, nel 1932 Bresson, folgorato da una grande illuminazione, comprende la potenza visiva del mezzo fotografico. Così, compra una Leica 35 mm, a cui affianca un obiettivo 50. Agile e leggero, Bresson comincia a fotografare il suo mondo, mosso da una passione così ardente che solo la seconda guerra mondiale poteva arrestare. Prigioniero in un campo nazista, dopo vari tentativi di fuga, riesce finalmente a evadere, unendosi alla resistenza francese. Sarà proprio lui, armato della sua fedele Leica, a documentare la liberazione di Parigi. Qualche anno dopo nasceva Magnum Photos e tutta la serie di reportage ormai passati alla storia.

Il teorico del momento decisivo


Per il fotografo la differenza tra una buona fotografia e uno scatto mediocre risiede nella capacità di riuscire a cogliere il momento decisivo, catturarlo e renderlo immortale. Da qui la fama di  “teorico del momento decisivo”: i suoi ritratti non rappresentavano mai soggetti in posa, ma sempre immortalati in fugaci azioni della loro vita quotidiana. In questo senso, a quei tempi la Leica rappresentava il mezzo migliore per poter catturare l’istante: il fotografo la considerava una vera e propria estensione dell’occhio. Essa era leggera e poco ingombrante, perfetta per muoversi con agilità.  

“La semplicità espressiva va ricercata attraverso la semplicità dei mezzi” e in questo Bresson era un vero maestro: sapeva cogliere l’attimo, utilizzando la sua macchina fotografica in maniera istintiva, un intuito che solo la conoscenza assoluta e consapevole del mezzo poteva conferire.

Le fotografie di Henri Cartier-Bresson: la regola dei due terzi


Henri Cartier-Bresson è un maestro della composizione: la sua arte era fulminante e istintiva ma  allo stesso tempo anche studiata e ben strutturata. La regola dei terzi è, per esempio, un elemento molto presente in quasi tutta la sua produzione. Le immagini di Bresson sono caratterizzate da una composizione perfettamente equilibrata, che conferisce alle immagini una grande potenza visiva. In pochissimi istanti, il fotografo aveva la capacità di posizionare perfettamente gli elementi in campo, riuscendo contemporaneamente a immortalare l’azione, improvvisa e irripetibile. Era come se studiasse la composizione di quell’istante ancora prima di intrappolarlo. Un istinto fotografico che non stupisce, considerato che negli anni giovanili, periodo in cui amava dipingere, passava intere giornate al Louvre, impegnato nello studio di grandi opere artistiche (come la sezione aurea di Piero della Francesca). Per lui scattare una foto era proprio come dipingere un quadro: tutto doveva essere al suo posto, al fine di creare un equilibrio perfetto tra gli elementi dello spazio rappresentato.

Velocità e perfezione compositiva: questa era l’arte fotografica di Bresson, il giovane pittore che ha trasferito la tecnica dei giganti dell’arte nella fotografia di reportage. Alcuni dei suoi scatti migliori, e di molti altri artisti che nel corso del tempo hanno contribuito alla grandezza della Magnum Photos, sono ora disponibili al pubblico italiano, presso il Museo dell'Ara Pacis, ma solo fino al 3 giugno.

Francesco Lodato

La regola dei due terzi di Henri Cartier-Bresson


giovedì 22 febbraio 2018

Luigi Ghirri: storia di un ritrattista del pensiero che ha fermato il tempo e trasformato lo spazio

Luigi Ghirri era un uomo molto distratto, costantemente immerso nei suoi pensieri. Lo ricordano così gli amici e compaesani che ancora oggi ne parlano con grande ammirazione, dipingendolo come avvolto da una grande aurea di mistero, propria di un grande artista. Di mestiere Luigi faceva il geometra. Poi, a un certo punto della sua vita, decide di mollare tutto e di lasciarsi andare alla sua grande inclinazione artistica: la fotografia. A oggi Ghirri può essere considerato uno dei capo scuola italiani della fotografia paesaggistica. Come l’illustre collega Gabriele Basilico, anche Ghirri intraprende un’affascinante studio sulla percezione dello spazio e del territorio, slegandolo drasticamente dall’immagine da cartolina che negli anni ’80 costituiva gran parte dell’immaginario collettivo  italiano. Questo nuovo approccio al territorio si concretizza, negli anni ‘80, in alcuni dei progetti più importanti del fotografo emiliano: Viaggio in Italia (1984), Esplorazioni sulla Via Emilia – Vedute nel paesaggio (1985), e Paesaggio italiano (1980-1989).  Qui i paesaggi appaiono come sospesi, quasi metafisici, caratterizzati da una grande semplicità, frutto di una lunga riflessione volta alla comprensione di se stesso e del mondo che lo circonda.

Luigi Ghirri: il paesaggio italiano nascosto


Luigi Ghirri libera dalle tenebre l’Italia nascosta, quel territorio silenzioso che l’iconografia tradizionale, influenzata dallo stereotipo turistico, aveva cercato di cancellare con tutte le forze. Il fotografo cerca così di superare l’immagine del “luogo comune”, sforzandosi di ricercare nuove metriche per misurare la periferia e la provincia, più poetiche e personali. Per lui la fotografia non è altro che la rappresentazione di uno dei tanti mondi possibili, che, in parte, nulla hanno a che vedere con quello reale. I suoi paesaggi sono in qualche modo a stretto contatto con il suo mondo interiore: spesso composte da pochissimi, ma essenziali, elementi, i suoi scatti si trasformano in porte della percezione, luoghi di confine in cui il reale e il metafisico lavorano assieme per la creazione di una nuova interpretazione del mondo. I luoghi di Ghirri si trasformano così in “non luoghi”, territori rarefatti e sovraesposti, prodotti di un lungo processo creativo in cui è la sperimentazione del colore a farla da padrone.

Il mistero, l'enigma e la cancellazione dello spazio


Il tema della memoria, dell’incanto e del fantastico: sono questi gli elementi caratterizzanti le opere di Ghirri. Il fotografo reinterpretava il paesaggio decontestualizzandolo dalla sua dimensione quotidiana, per inserirlo in un ambiente sospeso, in cui la percezione del tempo è drasticamente stravolta. Le immagini di Ghirri, sono territori pieni di  mistero enigmatico. Lo stesso Gianni Celati, suo grande amico e ammiratore, descrive le opere di Ghirri come caratterizzate da un grande senso della narrazione: le immagini di Ghirri, nonostante sembrino immobili, ci parlano, raccontandoci di un mondo che ormai abbiamo dimenticato. In questo senso risulta molto interessante uno dei suoi ultimi scatti, Roncocesi, realizzato nel 1992: dopo più di 10 anni passati a indagare l’essenza dello spazio e dei suoi elementi, Ghirri decide di fotografare la sola nebbia, eleggendola a simbolo assoluto della cancellazione estrema del mondo.

La scomparsa di questi territori, però, ne implica una conseguente nuova nascita, al di fuori dei confini dell’immagine:

“La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata è per me importante quanto il rappresentarlo, ed è grazie a questa cancellazione che l’immagine assume senso diventando misurabile. Contemporaneamente l’immagine continua nel visibile della cancellazione, e ci invita a vedere il resto del reale non rappresentato. Questo duplice aspetto di rappresentare e cancellare non tende soltanto a evocare l’assenza dei limiti, escludendo ogni idea di completezza o di finito, ma ci indica qualcosa che non può essere delimitato, e cioè il reale” .

Come Federico Fellini per il cinema, e come molti altri artisti della sua generazione che si sono cimentati nella pittura e nella fotografia, Luigi Ghirri è riuscito in una delle imprese più ardue per un artista: quella di fermare il tempo e trasformare lo spazio.

Francesco Lodato



Il mondo possibile di Luigi Ghirri

Il mondo possibile di Luigi Ghirri

Il mondo possibile di Luigi Ghirri
Il mondo possibile di Luigi Ghirri




lunedì 12 febbraio 2018

Glasgow 1969: la nascita artistica del grande Gabriele Basilico

L’8 febbraio 2018, presso la galleria Carla Sozzani di Milano, è stato presentato Glasgow 1969, il nuovo volume fotografico dedicato alla fotografia di Gabriele Basilico. Un lavoro inedito che completa la trilogia conosciuta come Basilico prima di Basilico, aggiungendosi ai due precedenti volumi che già la compongono (Iran 1970 e Marocco 1971). In Glasgow 1969 si ha la possibilità scoprire un giovanissimo Gabriele Basilico, ai tempi degli scatti ancora uno studente di Architettura.  

Gabriele Basilico: la biografia giovanile


Tutto ha inizio verso la fine degli anni ’70: sono anni di grande contestazione in Italia e tra i giovani nasce la necessità di potersi esprimere liberamente per trovare il proprio posto nel mondo. L’arte (e ogni sua forma d’espressione) è sicuramente il mezzo più congeniale nel raggiungimento di questo obiettivo. Affascinato dai lavori fotografici dei famosi reporter americani, il giovane Basilico si improvvisa fotografo da “strada”, immortalando alcuni istanti delle manifestazioni sessantottine. È proprio in questo periodo che, armato di una Nikon F e provvisto di un solo rullino, Gabriele parte per un viaggio in Scozia: arrivato a Glasgow, il ragazzo passa un’intera giornata di sole a fotografare con disinvoltura e grande ispirazione gli abitanti del luogo: bambini, donne, passanti. Attimi di vita, insomma, a cui fa da sfondo l’architettura industriale della periferia cittadina. Immagini che oggi acquistano una grande importanza perché si distaccano totalmente dalle produzioni future del fotografo, in cui l’attenzione si posa  più sullo spazio e la sua composizione che sulle persone che lo abitano. Tornato dalla Scozia, infatti, il fotografo si lascerà andare in una profonda riflessione sullo spazio cittadino, il luogo in cui tutte queste anime irrequiete si incontrano e vivono.


Un’idea di arte: il rapporto tra fotografia e architettura


In un’intervista rilasciata a San Francisco nel 2007, Gabriele Basilico riflette sul ruolo del  mezzo fotografico nella società contemporanea: la fotografia ci mette in relazione con il mondo, aiutandoci a interpretarlo. In una società in cui l’immagine fotografica ha completamente ingombrato il nostro immaginario visivo e dove il cittadino è ormai abituato al continuo bombardamento di scatti rappresentanti i luoghi in cui vive (una riflessione che si fa sempre più lucida considerato l’avvento di Instagram), la presenza dell’artista diventa necessaria all’inquinamento del punto di vista comune, per indirizzare l’osservatore a una nuova  riscoperta del  mondo, osservato ora attraverso occhi nuovi.

Il rapporto tra fotografia e architettura è sicuramente uno degli elementi fondamentali di questa “poetica”: Basilico è attratto dalla grande curiosità per la continua trasformazione dello spazio cittadino, così tanto da sentirsi in dovere di ridefinirne i confini continuamente. Lo spazio abitato rimane così  sospeso, una condizione (quella della sospensione temporale) che consente all’osservatore di poter decodificare con più attenzione ciò che ogni giorno lo circonda. In un certo verso, Basilico misura lo spazio per definirne il senso. La città, che in Glasgow 1969 non era altro che lo sfondo dell’azione, diventa così essa stessa il soggetto principale del mezzo fotografico.

Nonostante, quindi, questo volume rappresenti solo un piccolo momento della carriera artistica del fotografo, è da considerare come il tassello mancante di uno studio più approfondito al lavoro di una vita: l’inizio di un processo creativo che ha portato Gabriele Basilico a ridisegnare e a tracciare una mappa delle maggiori città del mondo.

Francesco Lodato


Glasgow 1969 di Gabriele Basilico

Glasgow 1969 di Gabriele Basilico

Glasgow 1969 di Gabriele Basilico